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di Mario Rigoni Stern

I fischietti di terracotta, o cuchi


Canta la primavera!
Canta la primavera! dice una antica canzone rinascimentale. Pure una vecchia canzone popolare inneggia alla primavera con il ritorno dei cuculo:
La bella alla finestra
La guarda su e giù
L'aspetta il fidanzato
Al canto dei cucù.


E chissà quando avrà avuto inizio la "sagra dei cuchi" dalle mie parti.
Come sarà nata tra queste montagne che per tanti secoli erano isolate dal resto del mondo? Forse l'hanno portata dal Nord i nostri antenati?
Non ne abbiamo memoria: si è sempre fatta. E basta.
Dopo la "scella marzo", il risveglio, o meglio, il richiamo della primavera che ancora si fa negli ultimi tre giorni di febbraio, e che noi ragazzi facevamo suonando i campani delle vacche sui prati ancora innevati per risvegliare l'erba che dormiva sotto, suono che faceva urlare di bramosia per l'erba dei pascoli le vacche rinchiuse nelle stalle da mesi e che i vitelli non conoscevano ancora, dopo questo antichissimo rito, si aspettava il 25 di aprile, quando il giorno era diventato ben più lungo della notte, per correre tutti insieme alla sagra dei cuchi.
Il 25 aprile è il giorno di San Marco: forse questa festa era legata a Venezia?
Ma il giorno di San Marco arrivano anche i rondoni, e i cuculi che risvegliano il bosco col loro canto, che risveglia la linfa degli alberi.
Per me è perchè il 25 aprile arrivano i cuculi che si fa, da noi, la sagra dei cuchi.
Ma qualche anno, in quel giorno, arriva anche la cuk-snea: la neve dei cuculo.
Si andava ugualmente, a piedi, attraverso i prati per un sentiero che esisteva tanto tempo prima che facessero le strade.
Un sentiero delimitato su ambo i lati da lastre di pietra infisse nel suolo perchè le pecore, le vacche o i cavalli non andassero a calpestare o sciupare l'erba e i seminati.
Per come era sviluppato si trattava certamente del primo sentiero percorso per unire gruppi di case.
Si camminava noi ragazzi, per questo sentiero mentre i giovanotti e le signorine andavano per la strada dove si poteva camminare a gruppi.
Per la strada passavano anche le giardiniere, quelle carrozze di un tempo dove si poteva stare seduti anche in dieci persone: cinque da una parte e cinque dall'altra, schiena contro schiena.
Sulle giardiniere andavano donne e uomini che alla sagra si recavano per rinfrescare i loro anni.
Li c'erano le giostre calcio-in-culo dove le ragazze nel girare alte mostravano le mutande, il tiro a segno dove i cacciatori volevano dimostrare la loro abilità e le donne dei baraccone manomettevano i mirini delle carabine ad aria compressa per far sbagliare il bersaglio e quindi stimolarli a sparare di più.
C'erano pure i marchingegni dove i boscaioli provavano la loro forza; le bancarelle con lo zucchero filato e i bastoncini di melassa, i dolci pepati e le nocciole tostate.
Ma anche un'altra cosa, unica, e solo per quel giorno: i banchetti con i cuchi!
Si, i fischietti di terracotta che si fabbricavano a Nove, vicino a Marostica, e a Bassano, e che magari quassù li portavano a dorso d'asino coloro che d'estate salivano a vendere fichi con la goccia e pesche della vigna.
I fischietti stavano lì in fila su delle tavole posate su cavalletti: davanti i più piccoli che costavano dieci centesimi, erano i più semplici: una gallinetta alta cinque centimetri che non aveva colori se non quello naturale della terra; ma il suono, soffiando nella coda, era di solito il più acuto e limpido. Poi venivano i galletti con un po' di colore sulla testa e sulle ali e otturando o aprendo il foro che avevano sul petto si otteneva un suono più modulato: costavano venti centesimi.
Quindi seguiva la fila delle galline e dei galli completamente dipinti, dal suono più pieno e pastoso a volte, uno su tanti, persino flautato.
Dietro venivano quelli più costosi, dai colori vivaci e con le figure più varie: a cavallo di un gallo, carabinieri in alta uniforme, ussari, corazzieri, zuavi, cavalleggeri.
Figure settecentesche o ottocentesche degli eserciti europei, specialmente napoleonici.
Suonando pareva emettessero suoni marziali!
Erano tutti dipinti a mano, uno per uno, dagli artigiani ceramisti di Nove e di Bassano (ora, nelle ultime sagre, ho notato che i soldati dell'Ottocento sono stati sostituiti con alpini e bersaglieri. Nelle prossime potrebbe accadere di vedere i cuchi topi dei deserto o marines).
Su qualche bancarella si trovano pure cuchi ad acqua, a forma di un piccolo vaso, dove soffiando all'imboccatura si otteneva un suono gorgogliante. Ma questi erano solo per i raffinati d'orecchio.
Era qui, davanti a queste esposizioni di fischietti, che i giovanotti si fermavano per scegliere uno o più cuchi da regalare alle ragazze, e prima di porgerlo lo soffiavano per sentire il suono.
O era solo per posare le labbra dove poi le avrebbe posate la ragazza? Come per stabilire o iniziare, o provocare un legame simbolico?
Le ragazze, poi, andavano verso le giostre ridendo tra di loro con malizia primaverile, soffiando nel fischietto.
Così la sagra si riempiva di suoni in vari toni e tempi. Acuti, bassi, chiari, fievoli, forti, limpidi, dolci, striduli, lunghi tutto un fiato, brevi, ritmati come il conto del cuculo; brevi come un sospiro, spezzati da una spinta, ritmati dal passo, gorgoglianti. Cosa che tutti questi suoni dei fischietti di terracotta, le voci, le risa, i richiami, gli spari dei tiro al bersaglio, le strilla dei ragazzini, la musica delle giostre, i gridi dei rondoni attorno al campanile componevano una sinfonia primaverile viva e palpitante dopo il lungo inverno.
Quand'ero ragazzino, dopo aver donato un fischietto da dieci centesimi a una bambina della contrada, ne comperavo anche uno per me e con quello, la sera a casa, riempivo la cucina di zuffolate finchè mi dicevano di smetterla; ogni tanto, però, lo levavo dalla tasca per darci una soffiatina e mio nonno rideva divertito facendomi l'occhiolino.
Dopo due o tre giorni il fischietto finiva in un cassetto della credenza dove alla rinfusa finivano spaghi, tirasassi, scatolette, bossoli di cartucce da caccia, temperini, matite.
Con i mesi che passavano il fischietto di terracotta, ci forza di passare tra le mani, perdeva i colori o si scheggiava, ma il suono diventava più morbido.
Con il passare delle sagre i cuchi nel cassetto aumentavano di numero, ogni tanto qualcuno spariva o si rompeva, altri venivano aggiunti dai ragazzi, fratelli e cugini che giravano per la grande casa. Dopo, crescendo, ben altre sagre e ben altri suoni incontrai nella vita; e quando tornai dalla guerra la sagra dei cuchi quell’anno era già passata. Nè più vi ritornai negli anni che vennero dopo. Eppure...
Eppure gli zuffoli di terracotta li ritrovai ancora, quando lessi che erano diventati oggetti d'arte, esposti in una mostra nazionale a Vicenza e persino alla Biennale di Venezia. Lessi anche che c'erano persino dei Musei dove venivano raccolti da ogni parte del mondo.
Alcuni artisti e intellettuali avevano anche promosso la creazione degli "Arci-cuchi", alti anche più di mezzo metro, lavorati e dipinti da artisti di valore, in forme e colori inusitati.
Ma suonavano poi? Mi assicurarono di si.
Provai stupore perchè fino allora avevo creduto che i cuchi venissero fatti e usati solamente per la nostra sagra paesana, non oltre a questa. O, tuttalpiù, nei paesi ai piedi delle nostre montagne.
Quante cose ignoriamo! Ignoravo anche che i fischietti di terracotta avessero storia millenaria universale, e che a loro sono legati miti, riti, cerimonie, tradizioni, leggende: i poveri, umili, semplici cuchi hanno nei millenni accompagnato la vita degli uomini e ancora sono vivi accanto a noi dopo che tanti oggetti si sono perduti lungo la strada della storia.
Chissà come sarà nato il primo zufolo.
In un riparo sotto la roccia? Su una palafitta? Sotto un albero? E da cosa avranno capito che soffiando dentro un oggetto cavo si produce un suono? Sarà stato un ragazzino per gioco a soffiare dentro una canna? O una madre per far ridere un bambino? O un cacciatore per imitare il verso di un animale? O un sacerdote per una voce misteriosa? E dopo quanto tempo avranno cominciato a lavorare la creta? Chi inventò il cuco? Chissà che sorpresa per tutti quel suono acuto uscito da un grumo di terra. La voce della Terra o la voce di Rea?
Ma il bello è che questi piccoli e fragili strumenti a fiato non si trovano solamente nella nostra vecchia Europa sino dalla preistoria fin alle nostre sagre paesane di questo Ventesimo secolo, ma in ogni continente e sotto ogni latitudine dove ancora si fabbricano ai nostri giorni in fogge e colori che subito, a guardarli con un po' d'attenzione, ti dicono l'origine e le radici profonde con l'arte nazionale.
Un fischietto del Perù è ben distinguibile da quello della Russia, uno iugoslavo da quello tedesco o italiano, uno cinese da uno greco.
Ma ancora poi in Italia si distinguono quelli toscani dai veneti, i pugliesi dai siciliani, i romagnoli dai piemontesi. Di tutti, insomma, i colori di chi li decora e la forma di chi li modella ci fanno risalire alla loro provenienza.
Per la loro antichissima storia, per l'arte popolare che nel corso dei tempi ha dato vita a questa creta nei fischietti a fiato, a loro hanno prestato attenzione etnologi e storici, e quindi musei e collezionisti.
In Europa, ma non solo, si sono allestite mostre e stampati cataloghi.
Anche artisti di chiara fama si sono cimentati qualche anno fa a creare fischietti di terracotta, o in ceramica o in gres, liberando la fantasia e l'estro in creazioni policrome nelle più svariate forme: antropomorfe o animalesche, cariche di allegorie e significati.
Questa iniziativa era dovuta a Gianfranco e Vania Valente, gallerista ma anche collezionista, nato nei pressi di quel paese dell'Altipiano dove si fa la "Sagra dei cuchi".
Forse è stata quell'aria e quei ricordi a spingerlo a raccogliere centinaia e centinaia di fischietti da ogni parte dei mondo, sicchè ora la sua è una collezione tra le maggiori, se non la maggiore d'Italia.


Mario Rigoni Stern